Rettoria Madonna di San Fili

Dettagli del luogo

L’esame dell’icona della Madonna “te Santu Fili” conferma l’opinione assai diffusa circa una sua origine quattrocentesca. Non allo stesso periodo risaliva, però, l’antica cappella demolita alcuni anni fa.

Statua della madonna in posa di preghiera

Descrizione

Nella visita pastorale di Mons. Scipione Spina del 1625, infatti, anche se si cita una località “Santo Fili”, la cappella non è né nominata né elencata tra le chiese esistenti nel paese; negli Atti della Visita Pastorale del 1667 poi si afferma che essa era stata edificata con le elemosine dei fedeli: il riferimento di questo particolare lascia supporre che la chiesa fosse stata costruita di recente.La costruzione della cappella potrebbe essere posteriore all’affresco, anche per un latro motivo: l’immagine del dipinto ora incompleta nella parte superiore e ciò che potrebbe far pensare che questa fosse al centro di una nicchia con la parte superiore ricurva, quasi a forma di conchiglia, e che nel ‘600, distrutta l’edicola, fosse stata edificata la cappella, avendo però cura di conservare l’affresco. Per quanto riguarda la denominazione “te Santu Fili”, sono state avanzate varie congetture. Alcuni hanno ritenuto che il “Santu Fili” sarebbe una volgarizzazione della lingua greca. Si è pensato, infatti, che la Chiesa fosse stata sede, sia pur modesta, di monaci bizantini e precisamente basiliani. Tre elementi sosterrebbero questa ipotesi:   a) l’affresco è di stile bizantino e in esso viene esalta la figura del Bambino, come frutto del seno di Maria;   b) presso i santuari bizantini vi era la cosiddetta “cella dell’eremita”: anche accanto alla cappellina vi era effettivamente una stanzetta dove (i più anziani ancora lo attestano), fino ad una cinquantina di anni fa, quando la località era ancora lontana dall’abitato, dimorava un mendicante, che ogni giorno, usciva per le vie del paese e chiedeva l’elemosina;   c) nel dialetto locale non si ha alcuna documentazione che la il latino filius sia sfociato in fili. Figlio in dialetto monteronese è sempre stato indicato con il termine “figghiu”; fili è invece il plurale di “figghiu”, ma l’aggettivo santu è singolare, non plurale.   Sulla base di questi elementi, il Fili è stato interpretato come una derivazione dal greco phileo (amare). Il titolo della cappella sarebbe allora quello di “Madre del bell’Amore”, la latina: Mater pulchrae dilectionis. La stessa immagine affrescata nell’interno della cappella mostra la Vergine, ma la figura principale è il Bambino, il frutto del suo seno, e Maria è la Madre del Bell’Amore. Questa interpretazione è però da ritenersi fantasiosa. La cappella, infatti, non è mai stata sede di monaci basiliani: nessun documento lo attesta e inoltre essa non era l’unica a richiamare la spiritualità bizantina, perché nel ‘600 a Monteroni vi era un’altra chiesa dedicata alla Vergine di Costantinopoli. L’espressione “Santu Fili” è spiegabile esaminando alcuni Atti di Visite Pastorali. Così la visita del 1646 intitola la chiesetta: cappella S.Filij nunc sub invocatione Sanctae Mariae  Costantinopolitanae. È chiaro quindi che l’aspetto devozionale bizantino fu successivo e che nella forma latina il vocabolo è semplicemente un genitivo di figlio. È stato comunque un errore denominare la località nella lingua italiana: “San Filio”, quasi esistesse un Santo di nome Filio! Con questo toponimo la cappella fu chiamata nella Visita Pastorale del 1906, ma nel 1881 essa era denominata “Cappella detta Santofilio”. Il suo nome anzi nel corso dei secoli fu citato in vari modi, per cui negli Assensi della Curia Vescovile si trova, a proposito un beneficio fondato da Don Donato Maria Imbriano: “in loco dicto S.Fili” e prima ancora nel 1625 è documentata l’espressione “in loco vulg.r dicto Santo”, e nel 1657 è documentata l’espressione “loco d.o S.Filio”. È difficile poi trovare un reale rapporto tra il nostro Santu Fili e il San Fili in provincia di Cosenza, denominato anche qualche volta nel ‘700 “Santo Fili”. Probabilmente le diverse forme del toponimo non sono altro che imprecise denominazioni di Gesù, appunto figlio di Dio. La Chiesa fu descritta nella Visita Pastorale del 1640. L’altare era di pietra, ma era sprovvisto del baldacchino, della pietra sacra e degli arredi liturgici. Il vescovo Pappacoda ordinò quindi che vi si provvedesse e che nel frattempo non vi si celebrasse. Poiché le suppellettili furono procurate solo qualche anno dopo, la chiesetta non fu visitata dal presule nel 1642. Nel 1646 il Vescovo comandò di procurare, entro un mese, l’acquasantiera e di inserire nel muro accanto alla porta, com’era prescritto dalle norme liturgiche. Fu quindi posto un “fonte di pietra” con l’acqua benedetta; venne però praticato anche un foro nel muro per consentire di segnarsi pure dall’esterno: ciò non fu approvato dal Vescovo che ne ordinò l’ostruzione. La cappella poco prima della metà del ‘600 era lunga 25 palmi e larga quasi 20, aveva un solo altare, sormontata da un’umbella conforme alle regole, il tetto di pietra a volta, un piccolo campanile formato da un arco con una campanula del peso di 70 libbre, che si raggiungeva da una scala posta nella parte sinistra dell’ingresso della Chiesa, sopra la porta vi era poi una finestra con gli infissi di legno. Era sui iuris e pertanto vi si celebrava non per soddisfare particolari benefici, ma ex devotione. Verso il 1665 fu rifatto il tetto; intorno a quella data, il custode della chiesa era un uomo spagnolo di nome Giovanni Vajnes, che ne deteneva la chiave, chiedeva le elemosine per tenere accesa perennemente la lampada davanti all’Eucarestia ed abitava nella casa, costruita non molto tempo prima accanto alla cappella. Nel 1680 nel medesimo eremo dimorava il chierico Leonardo Lappo, e, sempre in tale anno, furono restaurati i muri della chiesa ex elemosinis. L’ultimo romito fu Luigi Campilongo, che, insieme con la moglie ed un figlio, nei primi decenni di questo secolo abitava in alcuni poveri ambienti accanto al luogo sacro; girava per le vie del paese per raccogliere le offerte necessarie a sopperire ad alcune spese di culto. Nel 1693, la chiesa era in ottimo stato: mancava solo una porta alla scala esterna, che conduceva al campanile, e una tela ornata alla finestra, che il Vescovo intimò al cantore don Paolo De Paolis di procurare entro due mesi. L’immagine della Madonna, intanto, era tenuta con grande cura: affresco, ornato da una cornice di legno dorato, era protetto da un drappo di seta e da una grata di legno. Il De Paolis vi celebrava la messa per devozione personale ogni sabato. Alcuni segni in questo periodo fanno pensare ad un incremento della devozione popolare: vi si officiava sempre più spesso, vi era un legato e si festeggiava la Vergine ogni anno. La festa si soleva celebrare o nel mese di marzo o l’8 settembre e i visitatori lucravano le indulgenze. Nel 1682 e nel 1704 furono istituiti alcuni legati. Un particolare curioso è reso noto da un Assensus pro Rev.do Clero Monteroni nel 1741: la strada che conduceva alla cappella prendeva il nome dell’edificio sacro, ma era anche chiamata “il sacristano”. Il Capitolo dell’800 godeva di un legato intestato alla cappella ed in cambio vi celebrava una messa cantata, i primi e i secondi vespri della domenica fra l’ottava della festa della Natività di Maria Santissima. Verso la fine dell’800 la cappella era in buono stato, ma mancavano il Crocefisso sull’altare ed alcuni arredi sacri. Di essa si interessò nel 1906 il vescovo Trama per ordinare probabilmente al romito di chiudere la bocca della cisterna che era accanto. La cappella divenne uno dei luoghi di culto preferiti dai Monteronesi. Sino a pochi anni fa, essa era la meta del pellegrinaggio penitenziale che i fedeli in massa compivano la sera del venerdì Santo con la statua del Cristo morto e altri simulacri. Presso di essa ancora oggi si festeggia ancora oggi, ogni lunedì di Pasqua, “lu riu”, cioè la Pasquetta. Ad essa si guarda come ad un ameno luogo per le passeggiate primaverili, ma è soprattutto la meta di tanti spontanei pellegrinaggi. Proprio per questo motivo il 20 e il 21 Febbraio 1970 si abbattè la vecchia chiesetta, uno dei più antichi monumenti del Paese, per costruirne una più grande. Si salvò a stento l’icona. L’affresco già in precedenza aveva subito il rozzo intervento da parte di imbianchini che avevano cercato di ravvivarne i colori, fu staccato da parte del Prof. Francesco Rucco ed ora, restaurato, è conservato nell’edificio sacro.

Modalità di accesso

Accesso Libero

Indirizzo

Via Messapia, 2

Ultimo aggiornamento: 12/03/2024, 09:11

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